Dopo un sacco di tempo, e un numero di giorni che allo scoccare del 40esimo ho smesso di contare, sabato pomeriggio sono uscita per la prima volta dal 4 marzo.
Ho chiuso la porta di casa e sono uscita con la mia famiglia.
Mi sono spostata per fare delle commissioni, sono entrata al tabacchino e poi in farmacia, ho prelevato, ho aspettato fuori da un negozio ma alla fine mi sono stancata di aspettare e non sono più entrata.
[Giovedì notte]
«Mamma, non riesco a dormire».
«Amore, sai cosa puoi fare? Chiudi gli occhi e immagina di essere al mare. Guarda, ti puoi fare il bagno con Davide, gli abbiamo messo il costume. E vedi lì? C’è il secchiello per fare un castello di sabbia. Ecco, ora immagina tutte queste cose belle che ti aiutano a prendere sonno».
Silenzio.
[venerdì notte]
«Mamma, nemmeno oggi riesco a dormire. Non si chiudono gli occhi».
«Amore, oggi a cosa pensiamo di bello?»
«Alle mie macchinine».
«Benissimo. Allora chiudi gli occhi e pensa a una macchina telecomandata che puoi usare per strada, mentre la fai correre veloce».
Silenzio.
[Sabato mattina]
«Mamma io ora sto pensando».
«Davvero? A cosa pensi?
«Ho gli occhi chiusi e penso che stiamo partendo a Tempio, siamo in nave».
«Che bello, tieniti pronto che ci stanno aspettando tutti».
Silenzio.
A me la Pasqua è sempre piaciuta. Rito religioso a parte, che ha un grande significato simbolico per noi credenti, la Pasqua è sempre stata condivisione, famiglia, cioccolato in quantità, sorprese. Non ne ho mai parlato ma ho sempre pensato che questi aggettivi che raccontavano la mia Pasqua fossero banali, comuni a tutti noi che abbiamo la fortuna di festeggiarla così. Uova che si rompono a suon di risate, cioccolato che si mangia di prima mattina con genitori che ti lasciano fare, la magia di una sorpresa che aspetti come se fosse un regalo enorme, anche se sei già adolescente.
Oggi, in questa Pasqua 2020, tutta questa semplicità mi sembra la parte più bella della vita, una ricchezza enorme che riempie non solo una giornata Santa ma anche i nostri cuori di felicità e spensieratezza e vita da vivere ancora.
Sono abituata alla solitudine, a non vedere la mia famiglia, a godere delle piccole cose della giornata nei miei spazi. Amo la casa che abbiamo, in cui a piccoli passi abbiamo messo parti di noi. Ce la siamo sempre goduta, con un’illustrazione che abbiamo fatto realizzare e abbiamo appeso dopo anni e pareti vuote, con quadri che mi ricordano i nostri viaggi.
Abbiamo una casa semplice ma arredata con il nostro gusto e in questo nostro mondo abbiamo realizzato uno studio per il mio lavoro, una cameretta per far giocare i bambini e inserire tutte le macchine di Francesco. Ogni oggetto della nostra casa è vissuto e amato ed è anche per questo che qui, chiusa per obbligo, non sto male. Penso a tutte quelle famiglie che hanno arredato solo per sfarzo o per avere la casa perfetta ma magari stanno fuori tutto il giorno, escono a passeggiare, vivono un quotidiano poco sentito. Non godono delle piccole cose, non si aggrappano con amore a ogni oggetto che fa parte della loro vita, per abitudine, cultura, modo di vivere o per qualsiasi altra ragione che io non posso conoscere.
Mamma, mamma, guarda, c’è una nuvola grigia: è il coronavirus!
Francesco parla del coronavirus senza sapere bene di che cosa si tratti. Estrapola pensieri, voci ed emozioni che sente al TG o dai nostri discorsi ed è anche per questo che dopo lo shock iniziale, da qualche giorno abbiamo iniziato a parlarne meno.Si è ritrovato da un momento all’altro chiuso in casa, in un 5 marzo che forse ha già dimenticato ma che io sento dentro nel cuore.
Che cosa è successo? Mercoledì è andato a scuola come un qualsiasi giorno della settimana. Ha colorato il disegno per la festa del papà, ha recitato una poesia da imparare sempre meglio, ha giocato con i suoi compagni di classe e poi si è preparato per andare alla lezione di danza.
Non potevo dirgli che immaginavo fosse l’ultima lezione ma in verità avevo capito che avrebbero chiuso le scuole di tutta Italia. Lo dicevano da giorni le fonti non ufficiali, c’era nell’aria qualcosa di strano. Hanno sospeso lo spettacolo teatrale a scuola e le notizie in TV erano sempre più spaventose.
Perché educare i bambini al dialogo aiuta a costruire le basi di un rapporto di fiducia
Da piccola i miei genitori mi hanno abituata al dialogo in casa. È stato un passaggio graduale che mi ha permesso, una volta diventata grande, di raccontare, sfogarmi, parlare e vedere la famiglia come il punto di riferimento della mia vita, la spalla su cui ridere e piangere.
Di ritorno da scuola, fin dalle elementari, mi veniva sempre chiesto com’era andata la mattinata in classe, se c’erano stati dei conflitti, quali compiti dovevo fare per il giorno dopo. Non è mai stato un interrogatorio ma pranzo e cena erano destinati al dialogo. Era l’unico momento in cui potevamo esserci tutti e a tavola ma anche dopo pranzo si trascorreva molto tempo a raccontare gli episodi della giornata.
Questo approccio è andato avanti anche nell’adolescenza ed è capitato spesso di vedere mio padre e mia madre come due confidenti a cui raccontare un conflitto con un’amica o problemi a scuola che al solo pensiero, ancora oggi mi creano disagio.